Sagrestia del Sacro Eremo di Camaldoli
Filippo Gheri
Questo bel “ritratto” secentesco del beato Martino da Poppi, che l’iscrizione in calce un poco forzosamente onora della fondazione di Santa Maria del Sasso a Bibbiena, solo in parte s’apparenta alle poche immagini che l’eremita, converso camaldolese vissuto in pieno Trecento (Giordano, 1984, pp. 14-15), si è viste dedicare, tutte concentrate nell’ambito di quel convento domenicano.
Nelle fonti relative alle vicende iniziali del Sasso egli è sempre detto nativo di Poppi, sicché la provenienza da Pratovecchio, vergata a chiare lettere sulla tela, sembra far capo ad una diversa tradizione, verosimilmente coltivata nella famiglia religiosa di Camaldoli.
Né si trova memoria al Sasso di apparizioni mariane al buon Martino, così come si vede nel nostro dipinto, oltre la metaforica finestra sul fondo.
Il fatto è che quella del Beato casentinese è presenza quasi scomoda nella trafila di fatti culminata, molto dopo di lui, nell’arrivo dei Domenicani riformati di San Marco a Firenze.
Egli, che viveva da penitente in quei paraggi, fu tra i primi ad ammirare, l’anno 1347, il prodigio della bianca colomba, apparsa su uno sperone di roccia – il “sasso” - poco fuori Bibbiena, e lì rimasta immobile per trenta giorni, nonostante i tentativi fatti, anche da Martino, per allontanarla. E a lui pure si deve la costruzione, lì presso, di un primo, rustico oratorio, col concorso delle limosine dei tanti devoti, richiamati da quello e altri fatti straordinari (la cappella del Romito, per l’appunto, che tuttora esiste, assorbita nelle più tarde strutture).
Proprio alle prese con la colomba troviamo quasi sempre Martino nella risicata imagerie che lo riguarda, tutta reperibile, si è detto, a Bibbiena: così nell’affresco di Giovanni del Brina, 1567, nella faccia rivolta al coro dell’altare principale della chiesa superiore; così in una delle lunette del chiostro, di secondo Seicento.
Facilmente si noterà in queste immagini, e ancor meglio nel loro archetipo – l’attonito busto in terracotta che fa memoria del romito nella “sua” cappella, forse ancora quattrocentesco (Bellandi, Arte e devozione, 1998, pp. 51-52) –, come l’affiliazione camaldolese di Martino sia apertamente “celata” da una bruna – e generica - veste da penitente, quasi a collocare le vicende più antiche del santo luogo in un’aura di indeterminatezza, senza rapporto di un qualche valore con la vicina presenza, sul giogo d’Appennino, dell’Ordine di Romualdo.
Solo la nostra tela, allora, risarcisce fin qui Martino della sua vera appartenenza (per quanto solo nei panni di converso), e ne esalta la vocazione contemplativa.
Al contempo si fa ammirare, nella effigie del Beato, la definizione acuta dei tratti fisiognomici, tale che quasi la farebbe credere un ritratto “in veste di” di un qualche monaco, se subito, a far cadere l’idea, non si affacciasse il pensiero dell’avversione dei Camaldolesi per tale genere pittorico. Resta il fatto che la gran barba rossiccia, e i tratti di uomo maturo e certo non decrepito assegnatigli nel dipinto, si staccano con decisione dalla esigua tradizione iconografica martiniana, che vuole il nostro penitente vecchissimo e canuto, appoggiata com’è sulla notizia della sua morte all’età di 125 anni, pochi mesi dopo i fatti miracolosi.
Sorretta da una materia salda (ma che un poco si allenta nella scena del fondo), la naturalezza - però scelta - della nostra immagine, lungi dal trovare un corrispettivo in “terra d’Arezzo”, ad esempio nelle appassionate e sempre umorose formulazioni di un Bernardino Santini, che pure dei Camaldolesi fu un beniamino, s’aggancia piuttosto a fatti più lontani – quanto a geografia -, quali gli esercizi vigorosi di naturalismo “di ritorno” di un Antonio Gherardi, germinati dal magistero romano del Mola. Certo, la fama tutta locale di Martino, che non ebbe la forza di valicare i confini naturali della conca casentinese, suggerisce una esecuzione in loco, magari, chissà, per mano di un monaco pittore, di estrazione figurativa certo allogena.
Ma è questione, al momento, da lasciar sospesa, nella speranza, anche, di vedere aggallare qualche notizia certa sul dipinto, oggi senza storia.
Pubblicazione della scheda:
Filippo Gheri, in Sacra Bellezza, catalogo della mostra (Eremo di Camaldoli 2021), Bibbiena 2021, pp. 123-127
Bibliografia di riferimento:
Arte e devozione in Casentino 1998
Arte e devozione in Casentino tra ‘400 e ‘500. Miracula Sanctae Maria Saxi, catalogo della mostra (Bibbiena-Raggiolo 1998), a cura di L. Borri Cristelli, Venezia 1998;
Giordano 1984
S. B. Giordano o.p., S. Maria del Sasso. Un fiore del Rinascimento in Casentino, Cortona 1984;
Se ti é piaciuto questo articolo, puoi trovare piú informazioni in questa pubblicazione!
Vai al Libro