San Pier Martire a Firenze

Breve visita del monastero domenicano

Francesco Traversi

Le prime memorie che ricordano l’esistenza della chiesa di San Felice in Piazza risalgono all’anno 1066, successivamente l’edificio divenne un possesso dei monaci benedettini dell’abbazia di San Silvestro a Nonantola (Modena), passaggio testimoniato visivamente anche dalla presenza nel sesto altare di una lunetta ad affresco di epoca trecentesca, raffigurante la Madonna col Bambino con santi e l’abate benedettino. Intorno al 1413 vi subentreranno i camaldolesi e tale cambiamento, rappresentando questi ultimi una ramificazione del medesimo ordine religioso, non incise particolarmente sull’assetto architettonico dell’edificio.

Maggiori modifiche interessarono la chiesa invece a partire dal 1557, quando vi si trasferirono le monache domenicane ormai orfane del proprio convento di San Pietro martire in via de’ Serragli, che furono costrette ad abbandonare a causa di nuove esigenze civiche ed urbanistiche per Firenze, poiché vennero iniziati i lavori che avrebbero interessato anche quella determinata zona circa il rafforzamento delle fortificazioni militari a protezione della città. Per alcuni decenni il complesso di San Felice fu intensamente sottoposto a nuove modifiche strutturali, dettate dalle diverse esigenze delle domenicane: fra il 1557 e il 1590 furono infatti realizzate una sagrestia e una tribuna sostenuta da otto colonne, ideata per permettere alle monache di clausura di poter assistere alle liturgie da un luogo riservato, essendone precluso l’accesso ai fedeli.

Dal momento in cui vi fecero ingresso le domenicane – sebbene la chiesa mantenne la medesima intitolazione a San Felice – il convento acquisì il nome dell’antico monastero delle religiose, San Pietro martire. Nel corso del Settecento, in seguito alle riforme leopoldine, venne poi destinato ad ospitare fanciulle povere trasformandosi così in un Conservatorio. Dal 1806 ben 36 monache, tra velate ed oblate, ottennero l’autorizzazione ad aprire una scuola gratuita per le giovani indigenti dell’Oltrarno.

Fra i capolavori pittorici custoditi negli ambienti del Conservatorio di San Pietro martire, forse concepito negli ultimi anni del Cinquecento, è l’olio su tela raffigurante l’Apparizione della Vergine col Bambino a san Giacinto (tema caro ai domenicani e che può spesso incontrarsi nei conventi e monasteri dell’Ordine) di Jacopo Chimenti detto l’Empoli, uno dei maggiori protagonisti della Controriforma fiorentina. Lo stesso maestro dipingerà per l’adiacente chiesa di San Felice un’analoga composizione (tuttora custoditavi), con l’aggiunta della figura di san Pietro martire.

Entro i primi due decenni del Seicento si colloca invece la significativa prova di Matteo Rosselli, una grande “lunetta” ad olio su tela larga quasi sette metri raffigurante l’Ultima Cena, collocata nel Refettorio principale del Conservatorio, un lavoro dal forte impatto visivo che lo rende uno dei Cenacoli fiorentini più importanti del secolo: si distingue dai precedenti cenacoli anche per la tipologia del supporto, poiché generalmente eseguiti mediante la tecnica dell’affresco.

Del pittore casentinese Jacopo Vignali si incontrano due opere: una tela centinata ad uso di “coperta” (ovvero ideata per inquadrare un’immagine più piccola di particolare interesse devozionale), ritraente La Vergine, santa Maddalena e Caterina d’Alessandria consegnano a san Giacinto l’effigie di san Domenico di Soriano, con al centro il San Domenico di Soriano (ma è ipotizzabile che in origine la pala d’altare inquadrasse un altro tipo di immagine); e un San Francesco d’Assisi in adorazione del crocefisso, intriso di un emozionante pathos mistico.

Sempre al XVII secolo risale un commovente Cristo che mostra la piaga al costato, intenso per la profonda ricerca nell’esposizione delle sofferenze e sacrificio del Redentore, dipinto da Baldassarre Franceschini detto Il Volterrano, un soggetto che grazie all’artista incontrò molto successo nella Firenze del tempo e venne da lui stesso (e dalla valente bottega) replicato in più versioni.

Testimonianza del periodo rinascimentale è invece nel parlatorio una bella terracotta policroma dagli stilemi verrocchieschi, realizzata a tutto tondo e raffigurante il busto del Salvatore. L’abilità nel condurre il modellato e la rapidità con cui viene colta la naturalezza delle forme, sembrano condurre in direzione di uno dei migliori allievi del Verrocchio, assai pratico nell’arte plastica e cimentatosi più volte in simili realizzazioni, ovvero Agnolo di Polo, del quale può prendersi a confronto la decorazione fittile da lui messa in opera nel 1526 per la Cappella Spadari ad Arezzo.

Francesco Traversi

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